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Tra agenzie, showcase e social media, finire a giocare a calcio in America, al giorno d’oggi, è piuttosto semplice. Nel 2015, invece, i ragazzi genovesi in America erano pochi, pochissimi: Andrea Salomone, ex portiere di Bogliasco, Lavagnese e Camogli, è tra questi.

Oggi Salomone è “bloccato” a Cuba, dove si trovava in visita al padre, per l’emergenza CoVid. “Qui c’è l’obbligo di restare a casa solo per gli stranieri, dal momento che il virus lo hanno portato tre italiani” ci dice Andrea senza nascondere il suo disappunto”.

Salomone si è laureato in Finanza con un minor in cultura latinoamericana all’Ave Maria, in Florida, a un’ora di macchina da Miami, dove era portiere e capitano della squadra del college. “Ho scelto la Florida” ci spiega “perché, anche il college è stato fondato molto recentemente e gioca in NAIA, anziché in NCAA, era vicino a mio padre, che vive a Cuba, e dal momento che la Florida, insieme a New York e la California, era il posto che mi interessava vedere di più”

Una scelta di vita, prima che calcistica.

“È stata un’opportunità che non potevo rifiutare: i miei genitori hanno spinto molto in questa direzione. Il metodo universitario statunitense mi piaceva, l’idea di usufruirne gratis, giocando a pallone, era troppo allettante”.

All’epoca c’erano meno possibilità di adesso per andare in America.

“Mi ricordo che le agenzie avevano appena aperto. Io mi sono rivolto a College Life Italia, con sede a Roma, che vanta uno dei mister già vincenti d’America, che ora allena in Missouri. Ai tempi eravamo in 7/8 ragazzi italiani, ora ne hanno mandati più di 300”.

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Salomone in uscita alta

Come ti sei trovato a livello calcistico? Bennati dice che a questa domanda ognuno risponderà in modo diverso.

“Ha perfettamente ragione. Personalmente ho preferito andare in Florida anziché in stati come Missouri, Michigan, Virginia… non mi interessava molto quell’aspetto. Quando l’allenatore mi ha parlato di un campionato valido e importante mi sono convinto. Quando sono arrivato lì, ti mentirei se non ti dicessi che il primo mese volevo tornare indietro! Calcisticamente è stato un bello shock. Tre allenamenti al giorno con 40 gradi e un livello molto basso. C’erano 3/4 top player, tra cui un ragazzo italo-ecuadoriano ex Udinese, ma per il resto un livello più basso di quello che mi aspettassi. Ma quando sono iniziate le lezioni ho deciso di prenderla come una sfida personale e ho fatto bene a rimanere. Mi hanno fatto capitano, dedicandomi attenzioni uniche e facendomi sentire importante. Lo stesso è successo a fine anno, quando ho chiamato l’Università chiedendo di cambiare. Hanno fatto di tutto per tenermi, mi ha fatto piacere e ho deciso di far passare il secondo piano il calcio per concentrarmi sugli studi. E poi umanamente stavo benissimo, mi sono deciso a restare anche parlando con compagni, allenatore e con una professoressa di spagnolo con cui ho veramente legato. Tra l’altro quell’anno è arrivato un nuovo mister, Eddy Gaven,, che ha giocato due Coppe del Mondo ed è stato il più giovane a esordire in MLS. Per chiudere, devo dirti la verità, questi quattro anni non sono stati facili da un punto di vista calcistico. Solo gli ultimi due anni, prendendo qualche internazionale, è andata un po’ meglio.”

Questo stimola una riflessione: lì ci sono tanti talenti stranieri, ma c’è tanto da migliorare a livello di giocatori statunitensi.

“Assolutamente. Senza stranieri il sistema è ancora indietro. In NCAA Division 1 ci sono pochi stranieri, ma sono università molto care che concentrano molti fondi su football e basket ed è difficile arrivarci il primo anno. Molto spesso le squadre di Division 2 sono più forti di quelle di Division 1, perché hanno tantissimi stranieri: quasi tutti i membri della squadra, praticamente. In Italia è diverso, puoi scegliere tra varie scuole calcio. E poi ci sono i settori giovanili professionistici, con Genoa e Samp. Qui l’unica scelta, di fatto, è l’università. E se esci a 22/23 anni è tardi per il calcio europeo. In Italia a 18 anni hai già avuto tante esperienze in prima squadra”.

Hai menzionato gli studi. Il sistema college ti piace parecchio.

“È pazzesco. Molto migliore di quello italiano, dove magari hai 3 esami da dare, devi sapere tutto e, una volta passati i colloqui o gli scritti, il tuo cervello rimuove le informazione. In America sei seguitissimo, i professori sono disponibili per qualsiasi chiarimento o per migliorare il tuo voto, e facendo tanti test durante l’anno, quello che apprendi te lo ricordi per sempre. E poi sei in un campus. Hai le classi e a pochi passi ci sono gli impianti sportivi.”

Parliamo un po’ della tua carriera pre-americana. I tuoi inizi qui a Genova.

“Sono di Recco, ho giocato in una scuola calcio del posto fino ai 14. Poi ho conosciuto Marco Ferrero, un grande preparatore dei portieri che stimo tantissimo. Mi ha chiamato a Bogliasco e con la leva 95 abbiamo vissuto anni bellissimi, vincendo 3 titoli regionali. Una squadra fortissima, Giudice, Vagge, Martino, Mortari… Ricordo le partite contro l’Albaro, che era la maggior pretendente al titolo. Dopo gli anni sono andato un anno a Lavagna, anche se il calcio levantino, da un punto di vista della gestione, non mi fa impazzire: c’è troppo campanilismo. Sono tornato a Bogliasco e abbiamo fatto la Juniores Nazionale, 95 e 94 insieme. I 94 erano un’altra leva fortissima, Ruelle, Fassone, De Marchi, Crosetti… Siamo arrivati alle Final Four a Firenze. Una grande soddisfazione, insieme all’esperienza in Rappresentativa Ligure. A Bogliasco ho trovato Bistazzoni, un altro preparatore straordinario che non ha caso ha allenato anche Storari in Serie A. Ricordo che in quel periodo la mia vita era: scuola-uscita anticipata-allenamento-cena e ripetere il giorno successivo. L’ultimo anno a Bogliasco purtroppo, per fattori esterni, è stata fatta tanta confusione con i portieri della prima squadra e a pagarne le spese è stato il portiere della Juniores, cioè io. A fine anno chiesi il cartellino (e me lo fecero pagare) e andai a giocare a Camogli, in Promozione, con i miei amici, dopo un periodo in cui rimasi un po’ nauseato dalla situazione. Furono anni molto belli con una salvezza insperata: dopo un girone di andata a 3 punti in classifica, vincemmo i play-out contro il Ceparana. E Dilettantissimo c’era, se non sbaglio. Un bel ricordo che porto nel cuore insieme all’anno successivo in cui facemmo il record di punti del Camogli. Poi, nel 2015, la chiamata dall’America.

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Un giovane Salomone al Bogliasco

In America sei rimasto per 4 anni nello stesso College. Molti ragazzi invece tendono a cambiare: a cosa è dovuto secondo te?

Dipende con che mentalità vai in America. Ci sono ragazzi che arrivano con un obiettivo di tipo sportivo, e quindi magari accettano di partire da università sperdute, in mezzo al nulla, non al top da un punto di vista sportivo, con la speranza di arrivare più in alto. E anche la mia università, sul calcio, non era il massimo. Ma io ero un po’ più incentrato sull’educazione e sugli studi: avevo un po’ di progetti accademici e ricerche in corso con la mia Università, cambiando li avrei persi. Tra l’altro, trattandosi di una piccola università, venivano tutti a vedere le partite. E il mister, giovanissimo, era disponibile a seguirti personalmente: mi allenavo tre volte al giorno. Uno spettacolo, non sono mai stato così bene.

Cosa c’è nel futuro di Andrea Salomone?

Questo virus ha scombussolato le cose. Mi sono laureato l’anno scorso e stavo lavorando a Miami, dove avevo preso casa. Stavo facendo una vita serena, ero contento e volevo rinnovare il visto. A Miami mi sono trovato benissimo, mi affascinava da sempre: ma non la Miami “fashion” che tutti pensano di conoscere. Mi interessava la sottocultura del posto, che di fatto è latinoamericana. La gente è accogliente, ti fa sentire a casa. Poi parlando spagnolo era l’ideale. E ora chissà…

Quindi consiglieresti di fermarsi in America dopo la laurea.

Sì! Ma bisogna considerare che lavorare qui, per un europeo, non è facile. Ci sono differenze economiche, sociali… Per esempio, un americano è abituato a vivere con il debito per tutta la vita. Dagli studi, in cui magari ti concedono un prestito da 100 mila euro, al diverso sistema delle carte di credito… Bisogna abituarsi.

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Ci sono cose che non ti piacciono degli Stati Uniti?

“La paura di sentirti male. Ho visto persone che sanguinavano che chiedevano di non chiamare l’ambulanza perché non avevano i soldi per pagarla. L’assicurazione medica costa tantissimo, una assicurazione familiare può costare 3000 dollari al mese. E poi i pregiudizi che molti hanno verso il diverso: tanti americani sono ignoranti e vedono male le comunità dei neri e dei latinoamericani. Quando c’era Obama questa finestrella di razzismo era socchiusa, ora, invece, tanti si sentono legittimati a parlare. Per questo, per vivere, ho scelto Miami e non New York. Miami è un luogo a parte. Se tu chiedi a un cittadino di Miami da dove viene, ti risponde “Miami”, non Florida. Qui sono tutti latinoamericani e vedono la vita in modo diverso. E quando ho giocato qualche torneo di calcio, ho finalmente visto il calcio che piace a me: tutti sudamericani, un calcio sanguigno, maschio, passionale. Questo mi è mancato del calcio italiano: il vivere la partita, e anche protestare. Qui nei college avevano paura di fare un fallo. A tal proposito, chiudo con un dato statistico: ho il record di gialli per proteste del mio campionato. Non ho mai smesso di protestare! (ride, ndr).”

La storia di Andrea Salomone è un po’ diversa dalle altre: per prima cosa, è stato uno dei primi a scegliere l’America. In secondo luogo, è un ragazzo che si è già laureato. E, soprattutto, prima dell’emergenza CoVid, aveva deciso il suo futuro: vivere e lavorare in Florida. Anzi, a Miami.

In bocca al lupo, Andrea!

T.I.

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Questo era Andrea Salomone, in “Ma se ghe penso”

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