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GIACOMO AVELLINO, UNA BANDIERA DEL CALCIO LIGURE

Giacomo Avellino, capitano della Lavagnese
Esistono nel calcio quei giocatori che chiamiamo “bandiere“, che in qualche modo, per scelta o per destino, si trovano ad essere indissolubilmente legati per tutta la carriera a una sola squadra, a una sola casacca. Resistendo al richiamo della gloria, o del denaro, e diventando un simbolo sacro di fedeltà e attaccamento, oltre a un punto di riferimento per ambiente e società e un esempio per le giovani leve e per i nuovi arrivati.

C’è chi dice che nel calcio moderno le bandiere non esistano più. Andatelo dire a Giacomo Avellino, capitano della Lavagnese da circa sei anni e giocatore bianconero da undici. Classe 1985, il difensore originario di Sestri Levante parte proprio dalle scuole calcio del suo paese, per poi continuare a crescere nel prestigioso settore giovanile della Sampdoria (in cui resta complessivamente quattro anni: due anni di Allievi, e due anni di Primavera). Poi l’arrivo in Serie D con l’esperienza fuori porta della Cossatese (Biella), un assaggio lungo due anni di professionismo in C2 con la Sanremese, per poi ritornare in Serie D, con Borgomanero, Sestri Levante e infine Lavagnese.

Un percorso che si è avvicinato sempre più verso casa, come un Ulisse che ha l’ambizione di esplorare il mondo ma che poi, con il cuore, desidera sempre ritornare ad Itaca. Nell’Odissea l’eroe greco torna a casa, ma poi riparte: l’ambizione è più forte dell’amor patrio. A differenza di Ulisse, Giacomo Avellino è tornato alla sua Itaca ma c’è anche rimasto, scrivendo la romantica storia di una delle pochissime bandiere ancora esistenti nel calcio moderno.

Per due anni sei riuscito a toccare con mano il professionismo, nei due anni alla Sanremese.

“Per un po’ di tempo il mio obiettivo è sempre stato, dopo l’esperienza a Sanremo, quello di tornare in qualche modo a giocare tra i professionisti. Poi il tempo è passato, ho iniziato a lavorare e le mie priorità sono cambiate. Ho abbandonato l’ambizione, ma è stata una scelta di vita“.

In un mondo dove le bandiere sembrano non esistere più, tu sei l’eccezione. Questo era il tuo undicesimo anno alla Lavagnese.

“Questa cosa mi inorgoglisce, perché sono consapevole che di figure come Totti, Del Piero e Maldini non ne esistono praticamente più. Lavagna è diventata casa mia, e non riesco a immaginarmi in un altro posto, o con un’altra maglia addosso. Quello della Lavagnese è un ambiente particolare, dove si riesce a lavorare con serenità e senza pressioni: questo perché, a differenza di altre piazze di Serie D (come quelle del sud Italia) non c’è una tifoseria calda. Questo ha i suoi pro, ma anche i suoi contro: se le cose vanno male, non hai pressioni, ma se le cose vanno bene manca quel calore che solo una tifoseria può dare. In questa situazione secondo me, dobbiamo essere maggiormente bravi noi a trovare le giuste motivazioni per migliorarsi e fare bene in campionato”.

 

 

Un campionato difficile quest’anno per la Lavagnese.

“Da analizzare come un campionato a due facce. Una prima analisi che va dalla preparazione sino a dicembre, in cui il problema non è stato né l’attacco né la difesa, ma l’inesperienza. Siamo una squadra molto giovane, tutte le domeniche ci ritrovavamo a lottare sino all’ultimo e spesso per mancanza di esperienza non siamo riusciti a portare a casa punti, magari pagando per alcuni episodi, appunto, a causa dell’inesperienza. L’arrivo a gennaio di tre giocatori di grande maturità ha cambiato il volto del nostro campionato, sino allo stop forzato: la media punti da dicembre si è trasformata, a ritmi praticamente da play off. Siamo riusciti a scalare sei posizioni e a uscire fuori dalla zona play out”.

Sei capitano della Lavagnese da circa sei anni. Che caratteristiche deve avere secondo te un capitano?

“Sì, prima facevo il vice a Gabriele Venuti: poi, lui ha iniziato a giocare un po’ meno, e in quei frangenti ho iniziato a sostituirlo sino al suo ritiro (2014/2015). Secondo me un capitano dev’essere, indipendentemente dalla categoria, un vero e proprio leader. Da quando ho anche iniziato ad allenare i giovani, mi sono accorto che le dinamiche del gruppo sono uguali ovunque, a prescindere dall’età e dalle categorie. Secondo me un capitano non dev’essere mai autoritario, ma autorevole. Bisogna guadagnarsi il rispetto non con il timore, ma con autorevolezza: così si ottiene secondo me la stima dei compagni di squadra e dei più giovani”.

A proposito di giovani, che rapporto hai con loro?

“Sono riuscito a instaurare un ottimo rapporto con i più giovani. Se sbagliano, sono il primo ad arrabbiarsi e a riprenderli, ma credo sia ancora più importante riuscire sempre a tenerli sul pezzo e cercare di far loro condurre nel miglior modo possibile una vita da atleti, allenandosi bene e senza alzare mai troppo la voce con loro. E questo mio modo di fare, credo sia apprezzato: il rispetto dev’essere prima di tutto reciproco”.

 

avellino oneto

 

Hai un esempio, in questo senso, a cui ti ispiri e che ti ha lasciato qualcosa di importante?

“Fare un solo nome è riduttivo. Mi sento di essere un osservatore, che cerca di prendere non solo ed esclusivamente da una figura di spicco, ma che cerca di assorbire tutto da tutti, allenatori, compagni ecc. C’è chi ho stimato per la sua umiltà, chi per la grande carriera, chi per la sua leadership: cerco di apprendere da tutti loro… tra i volti noti, leggo e guardo i video di Velasco”.

Quindi, se ti chiedo invece un allenatore a cui ti senti più legato mi rispondi nello stesso modo.

“Sì, vale lo stesso discorso. Ho avuto sette anni mister Andrea Dagnino, che ha dato tanto non solo a me, ma a tutto l’ambiente lavagnese. Lo stesso vale anche per Gianni Nucera e Luca Tabbiani. Sai, quando sei giovane non ti rendi conto di tante cose, poi crescendo a posteriori riesci a capire, cercando sempre più di prendere da tutte le persone con cui entri a che fare”.

Chi è il giocatore più forte con cui tu abbia mai giocato?

“Te ne devo fare due di nomi: Michele Currarino e Savio Amirante

Ti chiedo di scegliere un gol, una partita e una stagione che siano un po’ tre fotografie importanti della tua carriera.

Un gol. “Quest’anno ne ho segnato uno al 93′ minuto contro il Verbania. Un gol importante, perchè eravamo in dieci e stavamo perdendo 1-0. Quel pareggio ci ha dato la forza di non mollare in un momento difficile, perché perdere quella partita sarebbe stato davvero un colpo durissimo: quel gol ci ha tenuto vivi e ci ha permesso di uscire da quel difficile momento”.

Una partita. “Non riesco a dirti una sola partita… posso dirti però che ho dei ricordi bellissimi per quasi tutti i derby. Abbiamo avuto spesso la fortuna e la bravura di vincere la maggior parte dei derby contro Sestri Levante e Caperanese, e spesso all’ultimo minuto”.

Una stagione. “Ti dico la prima stagione di play off con la Lavagnese, tanto per capirci quella in cui siamo arrivati ai nazionali sino alla partita di Cosenza. Abbiamo fatto annate anche migliori, con più punti ottenuti e forse giocati anche meglio: ma quella cavalcata è stata bellissima forse perché inaspettata. Non eravamo partiti benissimo, poi siamo arrivati sino ai play off nazionali”.

Questa stagione purtroppo si è dovuta bruscamente interrompere a causa dell’emergenza Coronavirus. Che idea ti sei fatto di tutte le possibili soluzioni che sono stati ipotizzati per i nostri campionati?

“Ho sentito e ascoltato un po’ di opinioni, e sono tutte diverse: c’è chi pensa bianco, chi nero. Il mio parere personale, è che bisogna ricordarsi sempre una cosa importante: siamo dilettanti. Secondo me, non è giusto tornare a giocare, ci sono cose molto più importanti in questo momento a cui pensare. Capisco che in Serie A si possa provare a riprendere: ci sono interessi economici legati ai diritti TV e ad altre cose enormi, e se vogliono portarla a termine con un controllo minuzioso e maniacale dal punto di vista sanitario, perché no. Noi dilettanti certamente non possiamo permetterci questo genere di precauzioni.

Se come penso il campionato non dovesse essere portato termine, credo che la miglior soluzione sia quella di cercare di accontentare il maggior numero di persone possibili. Accontentare tutti intanto è impensabile. A mio avviso, a otto giornate dal termine far retrocedere squadre farebbe scoppiare un putiferio. Io congelerei così la classifica, senza retrocessioni: se possibile, promuoverei le prime, ridisegnando la composizione delle categorie superiori. Anche perché, purtroppo saranno tantissime le società in difficoltà e che purtroppo non potranno neppure iscriversi”.

Cosa riserva il futuro di Giacomo Avellino? Vorresti chiudere la tua carriera a Lavagna? E poi?

“Sì, assolutamente. È una scelta che ho preso ormai molti anni fa: sino a quando il fisico me lo permetterà, giocherò con questa maglia. Poi… mi piace allenare. Parlare di una carriera da allenatore ad oggi mi sembra prematuro ed esagerato: sicuramente ho una grande passione per il calcio, che oltre ad aver alimentato da giocatore, sto cercando da qualche anno di farlo anche da allenatore, collaborando con il settore giovanile. Sono con la juniores da parecchi anni. Non ti nascondo che un domani mi piacerebbe continuare a stare su un campo, mi ci vedo ad allenare: qualunque sia la categoria”.

 

giacomo avellino

 


 

GIACOMO AVELLINO

QUESTA ERA GIACOMO AVELLINO IN “CAPITANO, MIO CAPITANO“, UNA DELLE RUBRICHE DI DILETTANTISSIMO!
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